Teatro

Il telefono protagonista della lirica al Comunale di Treviso

Il telefono protagonista della lirica al Comunale di Treviso

«Pronto, centralino? Mi passi per cortesia Roma 27391». Chi si ricorda di quando i telefoni avevano solo una manovella per caricare l'apparecchio, e bisognava chiamare una signorina per poter telefonare a qualcuno? Già poter comporre direttamente i numeri su di una tastiera è stato un progresso, ma oggi che con un cellulare si fa tutto - anche navigare in Internet - quei tempi sembrano incredibilmente remoti. Neanche un pubblico di trenta/quarantenni - figuriamoci i più giovani - non potrebbe capire come un tempo pochi avessero il telefono: un lusso, talvolta una necessità, non certo una cosa in tasca a tutti come oggi. Oppure come si potesse essere interrotti da una voce esterna («Che fa, raddoppia ?», ti chiedeva una addetta un po' sgarbata quando facevi una telefonata" interurbana", che costava molto di più), e come fosse cosa frequente inciampare in interferenze con altre conversazioni. Insomma, il telefono era cosa un po' eccezionale, non normalissima come oggi. E dunque poteva anche divenire oggetto di pièces teatrali e musicali: come nel caso dei due atti unici - 'La voix humaine' di Poulenc e 'The telephone' di Menotti che abbiamo visto al Comunale Del Monaco di Treviso.
Verso Jean Cocteau, Francis Poulenc nutrì un vivo interesse che si concretizzò nella messa in musica  di vari suoi testi, tra cui 'Le gendarme incompris' (1921), e 'La Dame de Monte-Carlo (1961). In mezzo sta uno dei suoi lavori più rappresentati, cioè quello splendido monologo che Cocteau scrisse nel 1932 per la Comédie Française e l'attrice Berthe Bovy: una piéce che porta in scena il dialogo disperato di una donna abbandonata dall'uomo che ama (fidanzato, marito, amante, non si sa) ma che non riesce rassegnarsi alla perdita. In realtà, gli attori sarebbero due: perché la voce dell'uomo, all'altro capo di un filo del telefono - un telefono dell'epoca, dunque mal funzionante per intromissioni altrui e continue cadute della linea - è una voce che non si sente, ma si riflette nelle parole della donna. Sono frasi, quelle dell'uomo, che possiamo solo intuire, e che hanno immediato riflesso sul suo disperato agitarsi. Quella compiuta da Cocteau in 'La voix humaine' è un'indagine profonda dell'emotività, del vuoto esistenziale e della psicologia di una donna sola e avvilita: Poulenc ne prese in mano il testo nel 1958, spinto dall'amico Hervé Dugardin, riuscendo a presentare sulla scena (la prima assoluta si tenne all'Opéra-Comique, nel febbraio del 1959) una perfetta integrazione di recitazione, parole e musica (e di silenzi, anche!), tramite un'ammirevole partitura della durata di meno di un'ora. Lo scrittore stesso ne rimase folgorato, affermando che quel suo lavoro di trent'anni prima aveva raggiunto in tal modo una configurazione perfetta e definitiva. Va da sé che un lavoro di tale intensità si regge solo se ad affrontarlo è un'interprete adeguata, capace di coniugare efficacia vocale e credibilità scenica: proprio il caso della superlativa Daniela Mazzuccato, grande attrice e grande cantante, che in questa edizione del Comunale di Treviso abbiamo trovato al meglio delle sue possibilità, accompagnata e sostenuta da una duttile compagine strumentale -  l'Orchestra di Padova e del Veneto - e dalla bacchetta sensibile ed attenta di Claudio Desderi.
Quasi inevitabile l'accostamento con un altro lavoro che vede di nuovo il telefono in veste di coprotagonista, cioè l'operina buffa di Gian Carlo Menotti 'The telephone' creata un altro precedente febbraio - questa volta quello del 1947 - allo Heckscher Theatre di New York. Lo scopo iniziale era quello di accostare a 'La medium' (presentata sempre in quella città l'anno precedente) un secondo atto unico così da formare un dittico e completare la serata, secondo una precisa richiesta della Ballet Society. Menotti decise sensatamente di contrapporre all'umore tenebroso e angosciante de 'La medium' la spensierata e gaia atmosfera di questa piccola commediola, vivace ed ironica (Guglielmo Barblan, dopo la prima italiana a Venezia, parlò di «partitura spregiudicata, saporita e monellesca») i cui interpreti sono solo due: la giovane e logorroica Lucy sempre con la cornetta del telefono in mano, ed il povero Ben che non trova mai ascolto, e che per riuscire a chiederle di sposarlo deve infine ricorrere proprio all'odiato apparecchio. A voler essere pignoli, gli interpreti potrebbero considerarsi tre, comprendendo nel cast quest'ultimo arnese dotato in orchestra di voce propria. Non a caso, il sottotitolo scelto dall'autore è proprio quello decisamente spiritoso di 'L'amour à trois'. L'orchestra e lo svolgimento musicale sono quelli tipici di Menotti: un saporito colore strumentale, veloci slanci melodici, un voluto eclettismo di stili che vanno dal valzerino da musical allo spunto jazzistico. La parte vocale non è particolarmente impegnativa, ma serve una buona dose di brio: dote che in questa occasione non difettava in Mariacarla Seraponte, ideale Lucy; un po' meno nel baritono Carlo Morini, un Ben un tantino goffo e ingolato. Esemplare anche in questo contesto il sostegno strumentale curato da Claudio Desderi, che ha esaltato la frivola leggerezza del trasparente strumentale.
L'allestimento curato da Sandro Pasqualetto in ogni componente - sue scene, costumi e regia - si era già visto l'anno scorso a Bolzano. Ripreso al Comunale, funziona sempre egregiamente: ambientazione America Anni Cinquanta, camere d'albergo viste metà di dentro, metà di fuori (volute evocazioni di Edward Hopper), buon uso di figuranti, recitazione seguita con molta attenzione sin nei minuti particolari. Cristina Alaimo ha collaborato sia alle scene che ai costumi, dietro le luci era presente un mago quale Claudio Schmid.